Come un puzzle - Liliana D'Angelo

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Come un puzzle
La protagonista è Alice, una ragazza che cerca a tutti i costi di scoprire le vere origini di sua nonna.

La vicenda si snoda su due piani temporali, quello attuale che vede Alice indagare sulla base dei pochissimi indizi che riesce a trovare e quello passato che si dipana in tutto il Ventennio fascista, epoca in cui iniziò la vicenda che poi sarà il motore di tutta la storia.

In un freddo mattino di marzo di tanti anni fa una bambina avvolta in una mantellina azzurra piange disperata in un giardino dove vive una coppia di sposi. La bambina è sola, affamata, sporca e i due si prendono subito cura di lei e l’accolgono nella loro famiglia.
Quasi settant’anni più tardi, in una mattina di inizio estate, Alice sale su un treno e raggiunge il nonno che ha avuto un incidente e ha bisogno di aiuto e compagnia. È allora che viene a sapere una verità che le è stata sempre nascosta e che nemmeno i suoi genitori conoscono. Sua nonna, che è venuta a mancare due anni prima, era stata adottata e da quando lo aveva scoperto si era consumata dal pensiero di essere stata rifiutata dai suoi veri genitori. Alice è addolorata da quella scoperta e come ultimo gesto d’amore verso la nonna, decide di provare a ricomporre i frammenti di quella storia.

La storia di due amiche, di un legame indissolubile, e di un infame ricatto.
Incipit
Capitolo 1
Giugno 2011
È piovuto tutta la notte, l’aria è calda, ma il sole non vuole decidersi a uscire. Apro un occhio. L’aria nella stanza è viziata, sto chiusa qua dentro da ieri sera. Mi piace dormire, starmene stesa a letto fino a tardi, in fondo me lo merito; mi sono alzata con la sveglia che mi trapanava l’orecchio tutto l’anno, ogni mattina, corri di qua, corri di là, la colazione smozzicata, il caffellatte di traverso, un occhio truccato e l’altro no, prendi l’autobus, entra a scuola sul suono della campanella. E poi cinque ore di filato, verifiche, interrogazioni, e quella voglia tremenda di appisolarmi sul banco, là, nell’ultima fila, con la testa tra le braccia, come facevo da bambina all’asilo. E invece no, dovevo restare sveglia, i miei ci tengono che porti a casa una pagella dal sei insù. Quel cinque in matematica al primo quadrimestre papà non l’ha proprio digerito.
«Ma come? Te l’ho detto tante volte, se hai bisogno ti mando a ripetizione, ci sta la moglie di un mio collega che fa doposcuola da una vita, è tanto brava, ha passato la voce con tutti all’azienda.»
Ma io niente, mi sono stretta nelle spalle e ho fatto no con la testa. «Ce la faccio da sola, papà»
Che fatica, ore e ore a spremermi il cervello, alla fine però ho preso un sei stiracchiato, per metà regalato, a detta della prof, ma almeno niente debiti. E adesso mi godo le sospirate vacanze. Ho tanto di quel sonno arretrato che chissà se mi basterà tutta l’estate per recuperare, e sono appena dodici giorni che ho smesso di andare a scuola.
Ci voleva pure il telefono. Ma perché mamma non risponde? Un pensiero si fa strada nella mia mente ancora preda del sonno. Mia madre sta facendo gli esami, quest’anno è membro interno, ne avrà fino a metà luglio. Poco male. La mattina avrò la casa tutta per me, posso dormire beata, senza l’incubo di mamma che coi suoi traffici per casa può svegliarmi. Di solito la domenica lo fa sempre. Chiude porte e finestre con la delicatezza di un elefante, certe volte si mette pure a cantare, per non parlare di quando accende quella maledetta scopa elettrica. Ha un nome così aggraziato: “Colombina”, fa pensare al tenero fruscio di una colomba, alla leggerezza del colore bianco, di un battito d’ali; invece è un aggeggio infernale, rumoroso e molesto, creato apposta per tirare la gente giù dal letto col suo odioso vrruumm vrruumm.
Dunque, il telefono. E mia madre non c’è. Papà sta fuori, in una città dal nome impronunciabile nel sud est dell’Ungheria, ce l’ha mandato il suo capo a fare un master di tre mesi, al ritorno pare che avrà una promozione. Cambio d’ufficio e di mansioni, stipendio più alto e una serie di agevolazioni di cui lui è parecchio soddisfatto. Fatti un po’ di conti manca ancora un mese al suo rientro.
Metto una gamba fuori dal letto, rassegnata.
«Vengo» farfuglio, poi mi trascino barcollando nell’altra stanza. Il telefono sta in cucina, di fianco al televisore da quindici pollici. Squilla ancora. Alzo la cornetta e rispondo con la mia solita voce rauca di primo mattino.
«Pronto.»
«Ah, finalmente, pensavo che non ci fosse nessuno in casa. Alice, sei tu? Sono Gemma.» Nel sentire quel nome sbatto gli occhi. Un respiro e sono completamente sveglia. Gemma è la vicina di casa del nonno, abita sul suo stesso pianerottolo, è un po’ invadente, ficca il naso dappertutto, però si fa in quattro per dare una mano. Da quando nonna è morta, e sono passati quasi due anni, ormai, si è data tanto da fare per lui. Se passa un giorno e non lo vede in giro, bussa alla porta, se fa un dolce la domenica, gliene porta sempre una fetta, se al mercato trova una primizia, gliela fa assaggiare. È una buona amica, ha una famiglia numerosa, un marito patito per la pesca e sempre un mare di biancheria da stendere, pile di piatti da lavare, pentole che borbottano sul fuoco. E in tutto questo trova il tempo di occuparsi di un vecchio brontolone.
Di solito non telefona mai, che sarà successo? Dalla voce non sembra funerea, però… «Gemma, sì, sono io, Alice, come sta? Tutto bene? Nonno…»
«È appunto per lui che vi chiamo. C’è papà… mamma?»
Con un pizzicorino d’allarme nella pancia: «No, stanno fuori.»
«Quando tornano?»
«Tardi, ma…» Giro l’occhio all’orologio appeso alla parete. Le nove e trenta. Beh, perlomeno non è notte. Le peggiori notizie arrivano di notte. «Gemma, può dire a me. È successo qualcosa? Nonno sta bene?»
«Sì, sì, niente di grave.» Niente di grave? Per poco non mi strozzo con la saliva. Vuole sbrigarsi a parlare questa pettegola? Ha sempre una lingua sciolta e adesso pare che se la sia mangiata il gatto.
«Dov’è?»
«In ospedale. Ecco, stamattina… c’è stato un incidente.» Si sente un sospiro dall’altra parte del filo. Io mi mordo la lingua per non urlare. Conto fino a sei, quando si decide a parlare? Pare che ci goda a tenermi sul filo. «Stava in giardino, dietro alle sue piante, mi ha detto che il limone era appesantito, i rami soffrivano; così s’è messo a lavorare di cesoia, che ne so come ha fatto? Ha perso l’equilibrio sulla scala, è ruzzolato giù.» «Come sta?»
«Si è fratturato una caviglia, lo stanno ingessando, senti come urla. C’aveva il piede tutto storto, mi ha fatto un’impressione quando l’ho trovato!»
«I medici che dicono?»
«Che torna a posto, col tempo, la fisioterapia. C’è un’altra cosa, però»
Ancora? E quando si decide a dirmelo? Spingo le unghie nel palmo della mano, devo pur sfogare la tensione, no?
«Ha battuto la testa, non s’è fatto niente, sembra. Qualche graffio, un bernoccolo, però gli faranno dei controlli, lo terranno fino a domani in osservazione.»
Tutto qui? Grazie a Dio. Non è in pericolo di vita. Tiro un sospiro di sollievo. «Deve restare lì? E come l’ha presa?»
«Lo conosci tuo nonno, no? Sai come la pensa sui camici bianchi, gli ospedali.»
Sì, lo so. Nonna c’è morta dentro un ospedale. Hanno fatto di tutto per salvarla ma è stato inutile. Quando il medico di turno l’ha detto al nonno, lui ha avuto uno scatto, ha tirato un pugno alla macchinetta del caffè e poi è corso dentro, da lei, con la schiena che d’un tratto si era curvata come se portasse un peso enorme.
«Io ho cercato di farlo ragionare, ma lui da quell’orecchio non ci sente. Sta ingrugnito come un orso.»
«Povero nonno, poteva andare peggio. Lui e le sue piante, le scale, se non la smette di fare l’acrobata…»
«Sai quante volte gli ho fatto la predica? “Ma che, il giardino è suo?” gli dico “Guardi che appartiene a tutto il condominio.” “Però il ciliegio e i due limoni sono i miei” m’azzitta “Li ho piantati con Aurora, quando siamo arrivati vent’anni fa e ci tengo.” È testardo più di un mulo. Adesso però ha bisogno di qualcuno che gli dia una mano. Io gli posso cucinare, dargli una spazzata in casa, ma poi lo sai, c’ho tanto di quel da fare!»
«Sì, sì, lo so, non deve starsi a scusare, Gemma, fa già tanto per lui».
«Ho chiamato per avvisarvi. Se tuo padre può prendersi qualche giorno al lavoro…» Penso alla faccia burbera del nonno che quando mi guarda si scioglie come una caramella in bocca. Sono la sua unica nipote. Nella nostra famiglia siamo tutti pezzi unici. Figlio unico il nonno. Figlia unica la nonna. Figlio unico mio padre. Figlia unica io. Mia madre fa eccezione, visto che ha una sorella e un fratello e una folla di cugini e zii da fare spavento.
«No, papà non c’è, sta in Ungheria per un master. E mamma quest’anno c’ha gli esami.» La decisione è già presa, non ho dovuto pensarci neanche un po’. «Ci vengo io a fare compagnia al nonno. Tanto con la scuola ho finito. Digli che mi organizzo, parto domani mattina. Vengo a prenderlo in ospedale.»
«Sei un angelo. Un giorno vorrei avere anch’io una nipote così. Tuo nonno sarà contento. Stravede per te.»
«E io per lui. Come faccio per parlargli?»
«Ti do il mio numero, l’orario di visite è dalle sei alle sette, se chiami a quell’ora, starò con lui.»
«Bene, a più tardi, allora, e grazie. Grazie davvero, Gemma.»
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