Gioco di squadra - Liliana D'Angelo

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Gioco di Squadra
Gioco di squadra è la storia di Chiara, un’adolescente che vuole a tutti i costi entrare nel gruppo più cool della scuola ed è disposta a tutto pur di essere accettata, anche a compiere le azioni più perfide. Guarda con invidia le ragazze più popolari della scuola, Teresa, bellissima e arrogante, Nina e le altre, e sogna di riuscire a diventare un giorno come loro, ammirate da tutti, spavalde e sicure di sé.

Ma un giorno accade qualcosa che cambia tutta la sua vita. Nel bosco dietro casa incontra un lupo ferito e si prende cura di lui. Non racconta a nessuno di quell’incontro però i segreti sono duri da mantenere e un giorno viene scoperta. Da questo momento quel mondo che guardava con desiderio si sgretola davanti a i suoi occhi e tutto si capovolge.
Il bosco dove Chiara incontra Grigio è un luogo simbolico, pieno di sensazioni autentiche. Qui, circondata dall’abbraccio della natura selvaggia, può togliersi la sua falsa pelle, quella che è costretta a indossare ogni giorno nel suo mondo glamour ed è libera di sentirsi davvero se stessa senza infingimenti.

È un bosco antichissimo, popolato di alberi secolari, e nasconde in ogni angolo scorci mozzafiato.

Ho sempre amato i boschi, la bellezza dello scroscio di un torrente, di una piccola cascata, ma anche il fascino inquietante di dirupi spaventosi, di sentieri pieni di ombre. Un bosco non dorme mai, non tace mai. Si alimenta di mille suoni, di odori e colori inconfondibili ed è capace di creare atmosfere evocative che danno slancio alla narrazione.

Il bosco è il luogo in cui Chiara si rifugia per dare sfogo alle sue malinconie ed è qui che costruisce a poco a poco il suo profondo legame con Grigio, l’amico che le insegnerà a superare le sue insicurezze e a essere se stessa anche nella vita vera.
Incipit
Capitolo 1
Chiara chiuse la lampo dello zaino, lanciò un ultimo sguardo alla sua stanza e uscì. Suo padre l’aspettava di sotto, vicino alla porta d’ingresso.
S’era messo un giubbotto sportivo con tante tasche e zip e un paio di jeans sformati ed era stato tutta la mattina a caricare il fuoristrada fino all’inverosimile, stipando in ogni angolo scatole e sacchetti di plastica contrassegnati da post-it gialli.
Insieme a sua figlia, aveva cercato di fare meglio che poteva, scrivendo su ogni pacco cosa conteneva – vestiti, libri, accessori – ma di sicuro, una volta arrivati a destinazione, non sarebbe stato facile disfare tutti quei bagagli senza andare in confusione. Dopotutto non stavano partendo per una vacanza: quello era un trasferimento in piena regola.
Nella nuova casa Chiara c’era stata tante volte, specialmente d’estate, dal momento che là ci viveva sua nonna, ma un conto era fermarsi per qualche settimana, un conto era cominciare una nuova vita in un posto diverso dal suo, dove a malapena conosceva un paio di vicini.
“Tranquilla” le aveva detto suo padre, “tra un po’ comincia la scuola e presto avrai tanti amici.”
Come se fosse facile.
In seconda tutti gli altri conoscevano già, avevano avuto un intero anno per fare amicizia e forse molti di loro si frequentavano dalle elementari: introdursi in una classe già coesa non sarebbe stata una passeggiata. Chiara sapeva come funzionavano certe cose: si formavano gruppi ben distinti, che non lasciavano entrare nessuno nel loro raggio d’azione. E poi lei era sempre stata un’insicura cronica, non ci si vedeva proprio ad attaccare bottone con quei ragazzi. Li conosceva si e no di vista, molti di loro li aveva incontrati in giro per il paese, in bicicletta, al capo di calcio, davanti alle vetrine del corso, ma non aveva mai scambiato una parola con nessuno. E come poteva? Stava sempre in macchina col padre e con la zia, a fare spese, a mangiare un gelato ai giardinettio un panino nell’unico pub del paese che faceva patatine fritte decenti.
come avrebbe fatto senza le sue amiche? Erano la sua forza, la corda che le faceva tenere a galla e non le permetteva di andare a fondo, nell’acqua scura dell’anonimato. Senza di loro non era niente. Non che fosse brutta o antipatica, ma la gente doveva guardarla bene per accorgersi di lei, sondare il suo sguardo, farsi incantare dal suo sorriso.
Chiara invece detestava passare inosservata, voleva che gli sguardi s’appuntassero su di lei, come su un faro, un raggio di sole in una giornata grigia, con lo stesso stupore gioioso.
Da piccola era una bimba tranquilla, non piangeva mai, non faceva capricci, giocava quieta in un angolo per ore. I guai erano cominciati alle elementari, quando la tendenza a starsene per conto suo era venuta allo scoperto: era stato allora che aveva iniziato a subire in maniera sempre più pesante scherzi e battute di cattivo gusto da parte degli altri bambini. Uno sgambetto che la spediva gambe all’aria, un buu urlato nelle orecchie a squarciagola, un pettegolezzo imbarazzante che volava di bocca in bocca; e poi punte aguzze di matite infilate nella schiena, palline di carta lanciate nel colletto del grembiule, fogli strappati, quaderni lanciati dalla finestra, nomignoli affibbiatogli momento. Durante i cinque anni di elementari aveva finito per chiudersi sempre di più in se stessa, preferendo alla compagnia di quei bambini stupidi e cattivi quella degli adulti: il padre, la nonna, la maestra di danza, la signora Dantis, un’anziana vicina di casa che cucinava per loro e le preparava sempre merende deliziose.
Poi c’era stata l’estate del campo scuola e tutto era cambiato. Chiara aveva capito che, se non voleva continuare ad essere un’esclusa per l’eternità, doveva aggregarsi alle ragazze più cool e godere di riflesse della loro popolarità, Così aveva messo da parte la vecchia se stessa e si era trasformata in un clone, una fotocopia delle tipe cui voleva assomigliare.
Si vestiva come loro. Si pettinava alla stessa maniera. Parlava e si muoveva assecondando il loro tono di voce e i loro gesti. Faceva le loro stesse cose fingendo che le piacessero.
In realtà a piacerle era la certezza che gli altri la guardassero quando andava in giro in loro compagnia: si sentiva finalmente libera dalle sue paure, sicura di sé e soprattutto al sicuro dalle mille piccole torture che aveva subito un tempo. Tutte le sofferenze che aveva patito erano ormai acqua passata, da allora in poi nessuno avrebbe avuto più occasione di trattarla in quel modo, si era detta, perciò avrebbe continuato a fingersi spigliata, moderna, avrebbe soffocato la sua voglia di tranquillità e silenzio e si sarebbe tuffata nel vortice caotico dei pomeriggi in centro, tra adolescenti, pronta a ridere anche di battute che non capiva, a guardare film che l’annoiavano a morte, a stordirsi con la musica sparata a palla. Certo, sarebbe stata un’imbrogliona, ma che importava? Cavalcava l’nda, e questo le bastava.
S’infilò in macchina con un muso lungo così e allacciò la cintura. Suo padre aveva già acceso il climatizzatore e lei gliene fu grata: fuori si moriva dal caldo, dovevano esserci quaranta gradi eppure agosto era agli sgoccioli.
“Puoi farti pure una bella dormita” le disse Gaetano, mentre metteva in moto. “Ci vorranno almeno tre ore prima di arrivare, oggi è previsto bollino rosso, con tutta la gente che torna dalle ferie.”


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