La schiava cristiana - Liliana D'Angelo

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La schiava cristiana
La schiava cristiana è la storia di Marco e Livia, due fratelli divisi da un crudele destino, all’epoca dell’ultima persecuzione contro i cristiani dell’imperatore Diocleziano.

La vicenda ha inizio un mattino d’estate quando la vita di Marco e Livia viene sconvolta dalla morte improvvisa dei genitori. I due bambini si trovano così d’un tratto orfani e senza nessuno che si possa prendere cura di loro, perciò ben presto vengono separati. Marco viene adottato dal centurione Decio e sua moglie Cornelia, Livia invece viene venduta a un mercante di schiavi.
Sono passati dieci anni da allora, quando una mattina Cornelia si reca al mercato degli schiavi per scegliere una nuova ragazza e tra le tante compra Livia, che dopo quegli anni trascorsi in schiavitù non ricorda più nulla della sua vita passata, nemmeno il suo vero nome.

Nel mondo misterioso e pieno di fascino dell’antica Roma, tra intrighi, tradimenti e brama di potere, i due fratelli si ritrovano vicinissimi e i loro sguardi si sfiorano ancora una volta, senza però riconoscersi.

La schiava cristiana è un romanzo che dimostra che la vita a volte riserva delle sorprese straordinarie.
Incipit
Prologo
Roma, regno di Diocleziano, 303 d.C.

«Via di lì! Fate passare!» Marco si voltò, raccolse in fretta le sue noci e spinse la sorella sul lato più interno del marciapiede.
«Sbrigati, Livia, vieni qui!» La piccola si fece indietro e guardò la strada.
La luce del sole s’imbrigliò tra i suoi capelli di rame e scivolò tra le pieghe della sua tunica, lunga fino al ginocchio.
L’uomo che aveva gridato era alto, magro, con la pelle nerissima e lucida e una selva di capelli ricci.
Stava alla testa di un piccolo corteo, formato da altre cinque persone; quattro di loro sorreggevano una lussuosa lettiga protetta da tendaggi di seta e un altro chiudeva la fila.
Livia si sollevò sulle punte, spinta dalla curiosità, ma non riuscì a vedere chi c’era dietro le tende.
«Vanno di fretta» considerò il fratello, facendo saltellare una noce nella mano.
«Il signore avrà un appuntamento.
» «O la signora» lo corresse sua madre, uscendo dalla bottega con uno straccio in mano.
Era una donna ancora giovane, con un viso dai tratti morbidi e un fisico armonioso.
La semplice tunica che le sfiorava le caviglie evidenziava i suoi lineamenti asciutti.
Quel mattino si era svegliata di buonumore, canticchiava tra sé e sorrideva, mentre rimestava la polenta in una padella in terracotta, nelle orecchie il vocio della strada che si risvegliava a un nuovo giorno.
«Di solito tende così raffinate appartengono a una donna» «Una di quelle con tanti anelli e bracciali, mamma?» domandò Livia, con gli occhi all’infuori per l’eccitazione.
«Proprio così, piccola mia.
Una ricca signora con tanti schiavi e una casa enorme, piena di stanze e letti e specchi dove farsi bella» «Quando sarò grande li voglio anch’io» annunciò sua figlia, con lo sguardo fisso sulla lettiga che si allontanava.
Sua madre le sistemò il nastro di raso che le cingeva la fronte.
«Sarà un po’ difficile, a meno che non sposerai uno di quei ricconi che vivono ai piedi del Palatino…
magari il figlio di un senatore» le bisbigliò all’orecchio e le scoccò un sonoro bacio sul collo.
A quella vista Marco arricciò il naso e le tirò la tunica.
Aveva sentito un feroce morso di gelosia.
«Non starla a sentire, mamma! Lo sai quant’è fanatica!» poi rivolse a sua madre uno sguardo adorante.
«Io non mi sposerò mai, non voglio lasciare te e papà.
Vivrò qui per sempre, nella nostra casa, e farò l’arrotino, come lui.»
«E chi lo sa? Solo gli dei conoscono quel che è scritto nel tuo destino.
E poi, il futuro è incerto, tesoro mio, perciò non impedire a tua sorella di sognare.»
«Atte!» gridò una voce maschile dall’interno della bottega «Non trovo il paiolo! Si può sapere dove l’hai messo?» La donna sospirò.
«Vostro padre! Sempre il solito sbadato! Vengo, vengo, che gli dei mi aiutino a sopportarti!» esclamò, facendo un cenno d’intesa ai due figli.
In realtà loro sapevano che, anche se non la smettevano mai di punzecchiarsi, si volevano un bene dell’anima.
Marco sorrise guardando sua madre che rientrava nella bottega.
Di primo mattino il padre aveva rimosso le assi che tenevano chiusi i battenti e spalancato completamente le imposte.
All’interno si intravedeva una gran quantità di attrezzi agricoli e coltelli, sistemati su mensole e ripiani.
La tenda interna, che separava la bottega dalla casa vera e propria, si aprì e sua madre vi scomparve dietro.
«Tocca a me» disse la voce lamentosa della sorella.
Aveva solo quattro anni, ma nei suoi occhi scuri si leggeva un lampo birichino.
Somigliava alla madre, stesso colore degli occhi, stessi capelli, stesse gambe tornite, ma aveva il broncio e le labbra di suo padre, rosse e carnose.
«Lo so, tanto sto vincendo io!» Marco s’inginocchiò a terra e sistemò di nuovo con pazienza le noci a forma di piramide.
Prima con un tiro potente le aveva fatte cadere tutte, ma mica era facile rifarlo? Livia intanto si mise in posizione, socchiuse gli occhi prendendo la mira e lanciò la sua noce, che rotolò giù dal marciapiede senza aver neanche sfiorato il bersaglio.
«Va’ in casa a giocare con le bambole, femmina! Per vincere ci vuole mira, guarda e impara!» Marco curvò spalle e ginocchia, si isolò dai rumori e dal via vai della gente e lanciò con precisione, centrando in pieno la piramide.
Il suo sguardo contemplò compiaciuto le noci che si spargevano in mille direzioni sulle lastre di basalto.
«Che ti dicevo? Ti manca la mira, sorella! Non c’è gusto a vincere con te, è troppo facile!» La piccola si strinse nelle spalle: «Questo gioco mi ha stancata.
Vado dentro a cambiare i vestiti alla mia bambola.»
«Ecco, brava!» Marco raccolse le noci.
«E la prossima volta è inutile che provi a sfidarmi!» Mise tutto dentro una bisaccia e diede un’occhiata in giro.
Strano, era già metà mattina e i suoi amici ancora non si vedevano, di solito passavano a prenderlo prima di riunirsi a giocare, chissà che stavano facendo…
Uno schiavo frettoloso con un’anfora tenuta su un fianco lo urtò.
Marco storse il naso; a giudicare dall’odore che emanava poteva indovinare cosa trasportava là dentro…
Fortuna che non gliene aveva versata addosso nemmeno una goccia! «Figliolo! Vieni dentro!» «Mi hai chiamato, papà?» «Sì.» Settimo si stava slacciando un lungo grembiule nero e aveva sulla fronte un baffo di ruggine.
Era un uomo possente, con spalle larghe, braccia temprate dal lavoro e gambe forti.
«Potresti combattere con i gladiatori», gli diceva sempre Marco, controllando ogni giorno i propri bicipiti, nella speranza che diventassero come quelli del padre.
Gli sarebbe piaciuto tanto combattere nell’arena, tra le urla degli spettatori, il suono delle trombe, i colori, le bandiere, gli scudi e le armature luccicanti.
Un’atmosfera magica ed esaltante che solo a pensarci gli metteva i brividi.
«Ho bisogno che tu dia un’occhiata alla bottega, figliolo.
Io e tua madre dobbiamo fare una consegna.
Faremo in fretta, il posto è in un vicolo non lontano da qui.» Settimo si abbassò fino a guardarlo negli occhi: «Posso fidarmi?» «Certo, papà.
Non mi muoverò di qui e non farò entrare nessuno» «So che a quest’ora la strada è piena di gente e in verità contavo di finire prima, ma…» «E allora? Nessuno toccherà niente.
Promesso!» L’uomo gli fece una carezza sui capelli neri, pettinati in avanti e tagliati corti sulla fronte.
«D’accordo.
Se tutto andrà bene ti sarai guadagnato un asse.
Atte, sei pronta?» La donna sbucò dalla tenda avvolta in una palla1 azzurra con cui si era coperta anche la testa.
Ciocche di capelli ricci uscivano dai lembi e le sfioravano le guance.
«Eccomi! Marco, bada a tua sorella, è dentro che gioca con le bambole.» “E da lì non si muoverà fino all’ora di pranzo”, pensò il bambino.
Conosceva sua sorella e sapeva che quando giocava con le bambole perdeva la cognizione del tempo.
Guardò la madre afferrare delle traversine di ferro, mentre il padre sollevava un massiccio attrezzo rettangolare e lo trasportava in strada.
Si appoggiò al battente in legno, considerando orgoglioso la grande responsabilità che gli era stata affidata, e salutò con un cenno il fruttivendolo della bottega accanto, che era uscito a sistemare grossi cesti di verdure fresche.
Da lontano udì il vociare chiassoso di una tavola calda, già piena di gente, e le risa di qualcuno che forse aveva appena raccontato una barzelletta.
Era un giorno come tanti nella sua città, Roma era caotica e affaccendata come sempre, il sole era alto e lui tra meno di un’ora avrebbe ricevuto un asse.
Poteva comprarsi uno spicchio di quella focaccia al rosmarino che gli piaceva tanto, calda e croccante.
Mm… non vedeva l’ora, aveva già l’acquolina in bocca.
“Sì” si disse “Questa giornata non poteva cominciare meglio” Non sapeva che invece stava per trasformarsi nel peggiore incubo di tutta la sua vita.
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